di Gabriella Del Duca

Devono aver “ciecamente lottato”, per dirla col poeta, gli scarti di metallo franati dalle benne o precipitati lungo il declino del rimorchio prima di riposarsi in uno dei tanti cumuli delle discariche industriali dove li ha incontrati lo sguardo di Paola Moro, uno sguardo non giudicante, capace di sognare per loro una nuova vita come quando si fantastica sul profilo di una nuvola o sul motivo di una crepa. Aggirarsi in una discarica può servire se si deve terminare un compito, ritrovare il filo di un discorso inconcluso con le leggi severe delle origini per rileggerne l’impostazione. Si può scoprire come il poco adatto, l’inutile, l’inservibile, il venuto male, riveli un’involontaria vocazione estetica nel suo casuale ammucchiarsi con altri sventurati nel girone dei rifiuti. Esiste la possibilità di essere riammessi al mondo se solo qualcuno vi si applichi con cura e genialità. Correggere la durezza come tenta la timida, spavalda catenina di filo legata alla rondella di ferro per metterne in scacco ogni pretesa. “È la mia testimonianza” dice Paola, l’eredità del lavoro ben fatto, dell’impresa e della cura. Ed ecco che nel suo laboratorio casalingo ha ripulito i pezzi, solo un poco, dice, e con l’aiuto di una saldatrice e l’intelligenza delle mani ne ha sviluppato il motivo iniziale, il desiderio implicito, se si vuole, aggiungendo elementi, completando l’intenzione di un gesto già incorporato nella forma, umanizzando uno slancio. Ha messo le creature in relazione fra loro o le ha allineate in piccoli drappelli dove si preparano per qualche parata. Tutti si “elevano” su una piccola base.

Gli oggetti acquistano poi nella bidimensionalità nitore e brillantezza, sono più astratti, si annunciano all’inizio in una sfilata, si prestano a comporre arazzi di fantastica tessitura, creature marine che fluttuano intorno ad un cerchio, esplosioni di fuochi d’artificio. Diventano sofisticate illustrazioni di copertine per libri ancora da scrivere o che si scrivono nel momento in cui li sfogliamo con le trame sterminate dei viventi.

Ma ecco che anche i piatti di un servizio forse di famiglia entrano in scena. Non più chiamati a servire offrono candore e lucentezza come i tondi di rinascimentale memoria a piccole creature dialoganti tra di loro. È un discorso che si fa col colore, con la fantasia della messa in scena. Piccoli gruppi si mettono in posa, ciascuno col suo carattere, ancora variazione e libertà. Un punto interrogativo dondola, l’irrequieto scalpita dentro la cornice. Una sfilata di donnine si offre di profilo, in statica postura egizia. Raffinato il ricamo dei motivi che riempiono i piccoli piatti ordinati in sequenza. Elevati dai trascorsi domestici, non più riconoscibili.

Altre creature compaiono a sorpresa da una quinta di teatro per mettere in scena la loro verità. Ci appartiene il desiderio di una rivelazione che sciolga finalmente i nodi di una vita, il desiderio di comparire sulla scena per avere tutta l’attenzione di cui ciascuno ha diritto. Aura di mistero nella striscia di luce che si allunga all’apertura di una quinta. La stessa luce drammatizza i volumi delle forme come in un quadro espressionista, aggiunge preziosità alle superfici. Siamo in attesa di sentire la confessione di queste borchie dorate, gli “a solo” di questi individui in drammatica posa o i dialoghi notturni di un terzetto che si è formato nella notte. Poi la striscia di luce si restringe, la porta del teatro si chiude.

Wunderkammer

Nella penombra della mostra gli oggetti liberati dalla prima funzione inviano a un mondo troppo indaffarato la loro profezia. Suscitano orizzonti le multiformi variazioni con cui a ciascuno è dato espandere la propria unicità, inducono una pedagogia universale, a disposizione di tutti. Nelle figure schierate o in qualche accennato impulso alla danza ciascuno può riconoscere una possibilità che lo riguarda. L’insieme genera un ritmo, basta scorrere lo sguardo dai tondi agli acuti, dal morbido all’aspro, da alberelli congelati a piccoli pesci sospesi e dondolanti, dalle evoluzioni di una rondella al gesto perentorio di una lancia. Piccole coreografie o drappelli temibili di guerrieri sanniti recuperano forza insieme all’anima scarnificata di un mucchietto di grattacieli nello stile di Manhattan. La provocazione è gentile, non irriverente come fu per i Surrealisti e i Dada ai loro tempi. Qualcuno è sullo sfondo, forse trepidante, che le sue creature mantengano la posizione, che non le facciano fare brutta figura in questa recita di riscatto e trasfigurazione, perfetta nella penombra dell’antico convento.

Allusioni

Le Allusioni sono nella visione creativa di chi intravvediamo oltre la trasparenza di un vetro su cui dispone le forme come note musicali. Uno strumento fantastico suggerisce ad un oggetto formato da tre elementi di rinnovarsi continuamente al suono del suo ritmo. In ogni quadro la combinazione varia, non c’è progresso, solo mutamento, necessario, scherzoso, benaugurante. Piccoli paesaggi di officina. Tubi lucenti, torrette di spirali con accanto alberelli, cespugli o spicchi di lune che cercano di distrarre i congegni dal duro compito per cui sono creati, forse un monito. Natura e cultura. Nostalgia di periferie.

Ritorno a casa

Il maglio è il luogo dove hanno cominciato a diventare concreti i sogni dell’impresa. I muri sgretolati e porosi hanno assorbito e forse ancora trattengono la piena di voci, di ingiunzioni, di energia del nonno, del padre, degli zii, dei cugini, dei ragazzi, tutti concentrati a realizzare “Il sogno di una cosa” con brevi, castissime pause degli adulti a giocare a carte col prete nel fine settimana. Religiosità del lavoro e della vita. “Qui ho imparato a vivere” dice a Paola un vecchio operaio che le apre la porta dell’officina. Per niente intimiditi da tale eredità infiorescenze metalliche stanno sui bancali, figurine impertinenti si assiepano sul tavolo della mensa dove mangiavano gli operai. Le creature di Paola si fanno riconoscere dalla forgia e dal maglio perché hanno la stessa pelle rugginosa. Si denuncia la parentela, li si può immaginare come i piccoli che si mettono in posa dopo aver fatto irruzione nel mondo degli adulti travestiti con gli avanzi. Una pausa si impone, forse un sorriso.

Paola esce.